Delirii

24 o della propaganda

In un’epoca in cui le serie televisive paiono essere il prodotto culturale (non amo questa espressione, ma di indubbi “prodotti” si tratta: realizzati per mostrare spot pubblicitari ogni 15 minuti) più interessante, più seguito e nel quale si concentrano i maggiori sforzi creativi e finanziari, alcune serie televisive toccano picchi memorabili. Altre vanno avanti di stagione in stagione non si sa bene in base a quale inerzia. Altre ancora fungono da apripista, avanguardie di vere sperimentazioni linguistiche.


Ce n’è una, che a mio parere resta un piccolo capolavoro, relegata in Italia tra i prodotti di serie B che si trovano in seconda serata su Rete4 o su Italia1, ma che in realtà rappresenta un attento racconto e resoconto di ciò che ha vissuto il mondo occidentale negli ultimi 15 anni – e per “mondo occidentale” intendo il mondo che dipende culturalmente e anche, perché no, politicamente, dagli Stati Uniti.
Sto parlando di “24”, una serie prodotta e trasmessa dalla Fox (il che già dovrebbe essere indicativo di un certo weltanschauung) tra il 2001 e il 2010, con un’ultima – mezza – stagione nel 2014.
“24” è il prodotto che riassume meglio ciò che è successo dal 2000 ad oggi – le Twin Towers, la “guerra al terrore”, la costante minaccia terroristica e così via – e lo sublima in una serie di trovate narrative d’impatto quasi parabolico, testimoniando non solo l’inizio del governo di George W. Bush, la sua imposizione a livello globale, i timori su cui ha fatto leva il New American Century e la forza con cui ha cercato di presentarsi come unica soluzione a ogni problema, ma descrivendone anche la fine, i dubbi dell’opinione pubblica, le reazioni, l’inizio della presidenza Obama e del nuovo corso (i cui effetti, almeno in politica estera, tardano a farsi vedere).
Se cinema e propaganda, ça va sans dire, sono da sempre stretti in un abbraccio letale, ultimamente la tecnica della propaganda bellica al cinema (come molti hanno notato, e meglio di tutti John Kleeves) ha avuto modo di affinarsi e “assottigliarsi”: si pensi non solo alla fantascienza di grottesca impronta maccartista (“L’invasione degli ultracorpi”) ma soprattutto ai recenti “Forrest Gump”, “Attacco al potere”, “Avatar“. Con la televisione e le nuove serie tritatutto, questo approccio divulgativo delle teorie politiche d’attualità prende una direzione più becera, più evidente, non fosse altro che, esondando dal limite delle due ore di durata massima di una pellicola, la televisione permette un lavoro di durata pluriennale. Proprio come è stato per “24”, durata ben otto stagioni (nove, se aggiungiamo il quasi spin-off del 2014) e terminata esattamente (guarda caso) all’inizio dell’era Obama, era di apparenti promesse e speranze.

La trama.

“24” racconta la storia di una fantomatica agenzia di anti-terrorismo, la CTU (Counter Terrorism Unit), e soprattutto del suo eroe/anima/messia, Jack Bauer, interpretato da Kiefer Sutherland, un attore la cui fisionomia diventa sempre più fanciullesca mano a mano che invecchia, e che risulta ben lontana dalla rozza cattiveria di “Stand by me”.
Il meccanismo narrativo che ha reso celebre “24” è ben noto, e sta tutto nel titolo: ciascuna delle otto stagioni dura 24 ore, una giornata durante la quale tutto accade in tempo reale e gli eventi sono presentati, spesso mediante l’abuso di split-screen, in contemporanea. 24 ore per sventare un complotto ai danni degli Stati Uniti. Si va dagli attentati al Presidente, ai colpi di stato, alle esplosioni nucleari, alle armi batteriologiche: minacce che, causa la tirannia dell’orologio che non si ferma, fanno sì che Jack Bauer, uno contro tutti, possa decidere in autonomia come affrontare ogni situazione, violando leggi e tralasciando i basilari diritti civili. Da qui l’uso massiccio della tortura, che è stato uno degli argomenti attorno al quale si è mossa tutta la critica a questa serie televisiva.

La prima stagione di “24” va in onda a cavallo tra il 2001 e il 2002, ma è realizzata ben prima dell’11 settembre. E si vede: è una stagione segnata dalla speranza, dalla volontà di cambiamento, pur continuamente minacciata da un nemico che spunta dal passato per vaghi motivi di vendetta. Un macguffin da primi anni ‘90.
Le minacce sono rivolte a David Palmer, primo candidato di colore nella storia delle presidenziali, nel giorno della sua sicura vittoria alle primarie. Jack Bauer ha 24 ore di tempo  per sventare la minaccia, riuscendo infine a scoprire che la mente dietro il folle piano è un vecchio nemico comune, un signorotto della guerra nella ex-Jugoslavia, il cui fratello Palmer e Bauer avrebbero contribuito a far morire durante una missione di pace. Vecchi fantasmi che tornano dal passato a stuzzicare la coscienza dell’americano medio. Una trama per certi versi banale, in cui a fare da vero catalizzatore è il meccanismo narrativo del tempo reale (ed infatti è la stagione in cui questa trovata è più efficace e meglio realizzata).
Già la seconda stagione è direttamente influenzata non tanto dagli accadimenti dell’11 settembre, quanto piuttosto dal dibattito che ne è seguito (e che è arrivato anche a noi): quanto sia giustificato l’utilizzo della tortura nei confronti di pericolosi terroristi. Questa volta la minaccia è rappresentata da un ordigno nucleare, pronto ad esplodere sul suolo americano nelle successive 24 ore. Jack Bauer non ci pensa due volte a inscenare l’omicidio della famiglia di un terrorista per scoprire informazioni essenziali alla soluzione del caso. Altro aspetto interessante della seconda stagione, che ritornerà in ogni successiva giornata, è quello della debolezza della Presidenza: qui, addirittura, il Presidente Palmer viene estromesso dal suo vice che giudica il suo atteggiamento nei confronti della crisi troppo “leggero”.
Se la terza stagione è un passaggio, ben poco originale nella trama e negli sviluppi narrativi, con vecchi nemici che ritornano e la deludente minaccia rappresentata dai trafficanti messicani (unica nota interessante è il senatore John Keeler, sorta di Bush un po’ più furbo), è con la quarta stagione che 24 ha una vera e propria svolta in chiave d’attualità. Realizzata poco dopo lo scandalo di Abu Ghraib, mette in scena un mix delle paure americane del 2004: dalle decapitazioni in diretta web, al terrorista islamico isolato (di provenienza incerta, per non urtare la sensibilità del pubblico) la cui missione è quella di distruggere il nemico occidentale, fino al vasto utilizzo della tortura come mezzo per sventare i pericoli. Interessante è proprio la figura del terrorista, Habib Marwan, contrapposta a quella di Jack Bauer: se in questi la componente familiare è non solo essenziale, ma praticamente l’unico motore di ogni azione (Bauer non protegge tanto gli Stati Uniti, quanto moglie e figlia che lì vivono, e con loro tutte le altre famiglie americane), nel terrorista la famiglia è solo una copertura, una “mimetizzazione”, che diventa addirittura un peso non appena moglie e figlio, affascinati dall’American way of life, tentano di contrastare i piani del loro patriarca/dittatore.
La quarta stagione scatenò un oceano di polemiche, proprio a causa del facile ricorso alla tortura. E non solo la produzione (e Kiefer Sutherland stesso) si difese avanzando la scusa della libertà creativa, ma si fecero sentire anche Donald Rumsfeld e Dick Chaney, dichiarandosi fedeli spettatori della serie (come se la cosa potesse rappresentare una garanzia di qualunque tipo).
La quinta stagione segna l’inizio del declino dell’era Bush e del New American Century: Bauer è costretto a nascondersi, i suoi metodi non piacciono più, il governo lo ha abbandonato. Quinta e sesta stagione sono figlie di questo sentimento: a parte una evidente perdita di originalità nelle trame (addirittura spunta una componente freudiana, e in entrambe le stagioni, con un banale coup de théâtre: i nemici principali risulteranno padre e fratello dell’eroe), si accentua il vizietto di Bauer per la tortura, ormai nemmeno più accompagnato da apparente pentimento. L’unica cosa di cui lo spettatore è conscio, è che tutto questo porterà prima o poi a un grosso guaio per Jack.
Guaio che giunge con la settima stagione, che inizia con un’inchiesta ai danni proprio dell’agente speciale, accusato di aver utilizzato la tortura con molta leggerezza. È un processo a tutta la “guerra al terrore”, che si conclude con la vittoria di quest’ultima: anche la giovane agente Walker, paladina dell’etica e del rispetto delle leggi, capisce che a certe condizioni, soltanto l’uso della forza può essere risolutore.
Ora facciamo un salto in avanti, e arriviamo al 2014. Si intitola “24: live another day” la nuova mezza stagione (mezza perché composta solo da 12 episodi), andata in onda negli USA tra maggio e luglio.
Non è il caso di raccontare la trama nei dettagli, ma ci soffermeremo su alcuni punti di estremo interesse. Innanzitutto Bauer, ormai in fuga, ritenuto un traditore e un criminale, ricercato dallo stesso governo americano e dai russi. E poi il Presidente americano Heller, che a Londra deve affrontare numerose proteste contro l’utilizzo dei droni da parte dell’esercito. E infine la vera chicca della stagione: “Open Cell”, un gruppo di hacker guidato da Adrian Cross, che ha la missione di divulgare i segreti del governo USA. Ricorda niente? Ma certo: Julian Assange e Wikileaks. Ma anche, e perché no?, Edward Snowden. E soprattutto le polemiche e le accuse a loro mosse da parte del governo e dei politici USA: Adrian Cross, infatti, non lavora per “la libertà”, al contrario. È un bieco mercenario, ruba informazioni per venderle alla Cina, ricatta un onestissimo agente della Cia, e nei confronti dei suoi collaboratori è una sorta di padrone/dittatore. Insomma, un ritratto del “tipo-Assange” di chiara impronta propagandistica, costruito ad arte per mandare un certo tipo di segnale.

Ogni stagione vede l’espressione di una paura dell’americano medio, o dei media americani. Naturalmente a fare da padroni sono terroristi mediorientali, dalla vaga provenienza (addirittura nella settima stagione compare una Repubblica Islamica del Kamistan, il cui presidente, negli Stati Uniti per un’apertura al dialogo, è una specie di Ahmadinejad-buono pettinato come Little Tony). Ma c’è tutto il campionario di chi minaccia gli Stati Uniti: dai cartelli della droga messicani, al sanguinari colonnelli dell’est Europa, a servizi segreti cinesi, per finire con il trionfo: una società di contractors, impazziti dopo la guerra in Iraq. Insomma, tutto il campionario dell’attualità spaventosa.
Un modo più volte collaudato di esorcizzare le paure, ma anche una tecnica già sperimentata e notevolmente affinata di guidare a poco a poco l’opinione pubblica americana. Del resto, se Jack Bauer, eroe “umano” (con macchie eccetera) è costretto a ricorrere alla tortura per salvare il proprio paese e la propria famiglia (vero elemento chiave della serie, che pare distrarre il nostro dallo svolgimento dei suoi compiti, mentre in realtà ne è il principale motore), vuol dire che in certe occasioni è giusto farlo, per salvaguardare la libertà individuale e quella degli Stati Uniti d’America.

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